Forum svizzero per il dialogo interreligioso e interculturale

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Presa di posizione
NO all'iniziativa "Sì al divieto di dissimulazione del viso"

Zurigo, 11 febbraio 2021

Il «Burqa» è molto più presente nei media e nei dibattiti politici di quanto non lo sia nelle strade svizzere. Secondo uno studio recente dell'Università di Lucerna*, ci sono infatti al massimo 20 - 30 donne in Svizzera che portano il velo integrale. Introdurre un emendamento costituzionale a proposito di questo tema non è né sensato né adeguato. I codici di abbigliamento contraddicono i principi di una Svizzera cosmopolita e moderna.

La maggior parte di coloro che indossano il velo integrale, sono persone che attraversano la Svizzera nei mesi estivi, sono dunque turisti provenienti dall'Arabia Saudita e dalla regione del Golfo. Essi rappresentano un fattore economico nelle regioni turistiche e non costituiscono alcuna minaccia per la cosa pubblica.
Le due dozzine di donne con il velo integrale che vivono in Svizzera costituiscono una piccola minoranza all'interno della già minoranza musulmana. Lo studio di Lucerna sopra menzionato ha inoltre attestato che esse indossano questo abbigliamento volontariamente, mosse da una motivazione religiosa personale.

Nessuna minaccia

Questo numero esiguo di donne non forma un gruppo omogeneo, non è necessariamente riconducibile ad un’organizzazione ed è inoltre improbabile che le donne appartenenti a questa minoranza siano in contatto tra di loro. Lo studio menzionato ha dunque il potere di contraddire l’immagine comune delle «donne che indossano il burqa» che si è veicolata tra il grande pubblico e all’interno dei media. Oltre a questo, è importante ricordare che le donne che indossano il velo non si sono mai rese protagoniste di minacce o attacchi.

Codice di abbigliamento non necessario

Mostrare la propria faccia è, in certi casi, essenziale. A questo proposito, infatti, il controprogetto indiretto stabilisce che nel caso di procedure amministrative, lo stato possa pretendere la rivelazione dell’identità della persona. I codici di abbigliamento rappresentano una violazione delle libertà individuali e del diritto all’autodeterminazione. Non c’è dunque alcuna ragione plausibile per cui si possa imporre alle donne in Svizzera cosa indossare o meno.

Promuovere una società aperta

IRAS COTIS è a favore della diversità dell’espressione religiosa anche laddove essa risulti essere, agli occhi della maggioranza, sconcertante ed irritante, purché questa non leda nessuno e non limiti la libertà di altri individui.
IRAS COTIS attribuisce una grande importanza all'uguaglianza di genere e sostiene le misure per l'uguaglianza e la promozione dei diritti delle donne nelle comunità religiose e nella società in generale.
Il «divieto del burqa» affronta un problema fittizio, che non esiste in quanto tale. Questa iniziativa, così come quella legata ai minareti, incita a coltivare sentimenti ostili verso l'Islam e i musulmani, ed espone al rischio che le posizioni radicali si rafforzino.
IRAS COTIS si impegna per la coesione, per la formazione di una società ricca di sfaccettature, aperta e plurale e respinge dunque categoricamente il divieto di indossare il velo integrale

* Andreas Tunger-Zanetti, Verhüllung. Die Burka-Debatte in der Schweiz, 2021


IRAS COTIS: Comunità di lavoro interreligiosa in Svizzera

La Comunità di lavoro interreligiosa in Svizzera IRAS COTIS è un'associazione che conta circa 80 membri istituzionali; tra questi troviamo le comunità religiose con sede in Svizzera e svariate associazioni interreligiose, forum e gruppi di lavoro cantonali e regionali. Attraverso i suoi progetti, la rete nazionale fornisce svariati input per la coesistenza e la multireligiosità in Svizzera, oltre che a promuovere lo scambio, il dialogo e la cooperazione tra persone con diversi background religiosi e culturali. In questo modo l'associazione mira a ridurre i pregiudizi, le paure e le ostilità, cercando di contribuire alla coesione sociale in Svizzera.

Il consiglio direttivo di IRAS COTIS

  • Rifa’at Lenzin Presidentessa, Studiosa dell’Islam
  • Toni Bernet-Strahm Vicepresidente, ex-direttore Romero-Haus, Lucerna
  • Roya Blaser Baha’i Schweiz
  • Martin Burkhard Chiesa evangelica riformata del canton Friburgo
  • Eliane Maria Degonda Unione buddista svizzera SBU
  • Khaldoun Dia-Eddine Federazione delle confederazioni islamiche svizzere FIDS
  • Eva Ebel Chiesa riformata di Zurigo
  • Satish Joshi Comunità induiste
  • Christoph Knoch Chiese riformate di Berna-Giura-Soletta
  • Christiane Schubert Ordinariato episcopale di San Gallo
  • Gurdeep Singh Kundan Fondazione Sikh Svizzera, San Gallo
  • Belkis Osman-Besler Associazione delle organizzazioni islamiche di Zurigo VIOZ
  • Jegan Periyathamby Tempio Induista, Adliswil

Di seguito il contatto per ulteriori informazioni
IRAS COTIS

Katja Joho, Direzione

Telefono mobile: 078 605 06 16
katja.joho@iras-cotis.ch
www.iras-cotis.ch


Scontro e incontro di civiltà

Prof. Giuseppe La Torre

La caccia al musulmano cattivo ha riempito le pagine dei quotidiani svizzeri negli ultimi giorni. A quanto pare, l’incubo dello scontro di civiltà persiste sulla scena geopolitica, ma anche nella nostra nazione e nello stesso Canton Ticino. In tutto L’Occidente verifichiamo la recrudescenza di atteggiamenti razzisti, antisemiti e islamofobi che, come credenti e come cittadini di una nazione che nei secoli passati ha fatto del pluralismo e della tolleranza la sua identità, destano una grave inquietudine. Occorre riconoscere che le democrazie occidentali, di fatto, non hanno mai affrontato a sufficienza e con serietà il problema della non corrispondenza degli stereotipi esistenti nella mente delle persone con la realtà, come è dimostrato dalle reazioni negative e a volte violente, anche se solo verbalmente, nei confronti dei musulmani che vivono nella nostra nazione e nel nostro cantone, ma che, più in generale ad esempio, riguarda anche l’omofobia e la misogenia.

La libertà non è il privilegio di qualcuno, ma il diritto di tutti. Se non è per tutti non è vera libertà. Concepisco la libertà religiosa e di opinione come una grande questione che riguarda tutti: gli evangelici come i buddhisti, gli ortodossi come gli ebrei, i musulmani come i bah’ai, gli atei come gli agnostici. La libertà, però, e qui mi rivolgo anche agli amici musulmani, non è solo un diritto giuridico, ma un dovere da vivere e difendere anche all’interno della propria comunità e di rispetto non da pretendere ma da condividere nella società in cui si vive. La questione della libertà, e della libertà religiosa e di opinione in particolare, non è il problema delle minoranze ma un tema centrale della democrazia e della laicità. La democrazia, strumento utile per dare voce a tutte le realtà, deve permettere a tutte le componenti della nostra società di superare i pregiudizi che sono all’origine di tutti i discorsi razzisti. Oggi, la convivenza - massima ambizione di qualsiasi sistema che predichi la pluralità - è lacerata da processi sommari su “gli altri”, le minoranze di gruppi etnici, sociali o religiosi.
Certamente l’immigrazione è alla base di tutta una nuova realtà da conoscere, da approfondire e da affrontare con urgenza. Partiti, movimenti d’opinione e singoli concittadini insistono, con o senza ragione, nel vedere in alcuni dei suoi aspetti un problema per il futuro della Svizzera. Problema che diventa ancora più grave quando si tratta degli immigrati provenienti da paesi di religione e costumi completamente differenti da quelli della tradizione occidentale e Svizzera in particolare. Bisogna riconoscere che l’islam in Svizzera, come in altri paesi occidentali, non ha un’immagine particolarmente positiva, anzi è piuttosto il contrario. Un passato colmo di episodi di guerra con l’Europa “cristiana” e un presente pieno di notizie, che descrivono una realtà di inconcepibile e inaccettabile violenza, non aiutano al riavvicinamento serio e obiettivo alla religione islamica. Per di più, molti europei vivono la relazione con l’islam, e con i musulmani, come la ripresa d’una contrapposizione antica e, per così dire, connaturata a una realtà geostorica e geostrutturale profonda.
I musulmani fanno parte ormai da molti anni della realtà svizzera e, prima ancora, di quella europea. Continuare a consolidare l’idea che la violenza riassuma la realtà dell’islam e dei musulmani è pericoloso e falso, nella misura in cui crea un timore spropositato, incrementando così le angosce e le paure che sono da sempre alla base di tutti i discorsi xenofobi. È un dato ormai ineludibile che l’islam sia una realtà costitutiva della nostra società multireligiosa e interculturale. Questo dato può essere una ricchezza per la crescita e l’apertura a nuove sintesi per gli uni e per gli altri, ma solo se sapremo costruire legami solidi di coesione sociale, dimostrando la vitalità e la solidità della nostra democrazia e della nostra tradizione secolare, in cui etnie, culture e religioni diverse hanno saputo lasciarci in eredità questa bella nazione. Sia gli “indigeni” sia gli “allogeni” abbiamo il dovere di mantenere questa ricchezza in un confronto dialettico e arricchente.
Il fallimento di alcuni modelli europei di convivenza interculturale è di fronte a noi. Dobbiamo cercare strade nuove. Da tutto l’Occidente, Svizzera compresa, tristemente arrivano messaggi sempre più segnati dal pregiudizio, dall’islamofobia e dalla volontà di escludere chi è diverso per nazionalità, opinione o religione, da fondamentali diritti di cittadinanza o di libertà. La speranza è riposta nella fiducia che la Svizzera saprà tracciare una strada in direzione opposta; ma l’accanimento mediatico fomentato da una certa destra, a mio avviso irresponsabile, certamente non aiuta.
I mass media spesso sono additati dai musulmani come responsabili del consolidamento di questa immagine negativa in cui s’insiste soprattutto sull’incompatibilità esistente tra islam, democrazia e modernità, lanciando il sospetto dell’incapacità delle musulmane e dei musulmani di essere dei veri svizzeri (dimenticando che vi sono musulmane e musulmani svizzeri per nascita e per tradizione). È indubbio che i mass media devono seguire il loro intento d’informare. I singoli giornalisti e le redazioni non devono avere il bavaglio di nessuno, ma da essi ci si aspetta competenza, buon senso e correttezza. Dovere di chiunque è informare correttamente e interagire con chi pubblica notizie false, inesatte o faziose con altrettanta competenza, buon senso e correttezza. Non si tocca la libertà di stampa minacciando ricorsi al tribunale! Sta al lettore informarsi bene e da più fonti. Non esiste la notizia super partes, equidistante e obiettiva. Il cammino della verità, che si barcamena tra obiettivi ideologici e realtà, tra interessi di parte e pregiudizi, non è sempre lineare e chiaro. La verità si relativizza nel mondo dei media, a volte totalmente schiava di un modo di spiegare i fatti che si limita a consolidare i pregiudizi e a non intaccare quell’immagine stereotipata che si tende a creare o a rafforzare nei confronti di chi si stigmatizza come “diverso”. Non possiamo negare che i mass media possano anche essere strumenti che difendono interessi ben precisi e presentino la realtà sulla misura di quegli stessi interessi. Il nostro secolo, però, ha sicuramente nei mass media lo strumento più importante per influire sulle idee della gente e allo stesso tempo per informarla e offrire delle opinioni che comunque necessitano sempre di un riscontro e di un confronto dialettico. La capacità di offrire delle notizie che provengono da tutto il mondo in tempo reale dà la possibilità, mai esistita prima d’ora, di conoscere le realtà dei vari popoli e paesi. Così si ha la possibilità, per chi lo voglia e per lo meno sul piano teorico, di difendersi dalle falsità e di contrastare il vero male della storia umana: l’ignoranza!
Se è bene vigilare sulla sicurezza dei cittadini resistendo al radicalismo e combattendolo, è incivile e indegno della nostra democrazia fare di tutti i musulmani un fascio e soprattutto ritenere pregiudizievolmente i musulmani come portatori di violenza, misoginia e quant’altro. Se e quando si riscontrano problemi nella convivenza e nella denigrazione della cultura svizzera da parte di minoranze (o di maggioranze) occorre allora affrontare con competenza ed equilibrio tali problematiche. Da una parte e dall’altra, pretendere di cambiare «l’altro» è incivile e irrispettoso!
Sul tema della presenza religiosa nella sfera pubblica, è perdente per il futuro della nostra società relegare le religioni in “isole chiuse”, anziché viverle come “compresenze aperte e arricchenti”. Un vero pluralismo richiederebbe che le istanze e le necessità di uomini e donne che vivono intensamente la loro fede non esauriscano i doveri di pluralismo, anche religioso, dei mass media e delle istituzioni. Piaccia o no, oggi le religioni sono tornate «per strada» ed esprimono idee, proposte, esempi che contribuiscono al dibattito pubblico, esattamente come una fondazione culturale, un partito o un ordine professionale. Su temi come l’ambiente, la bioetica, le risorse, gli stili di vita, i modelli educativi, le comunità di fede hanno qualcosa da dire – giusto o sbagliato che ci appaia, poco importa – in quello spazio pubblico che deve caratterizzare ogni società democratica e pluralista. Non hanno l’ultima parola – come qualcuno pretenderebbe – ma hanno diritto di parola: con altri e come altri.
Vi sono valori irrinunciabili per la cultura svizzera, ereditati da conflitti armati e da dibattiti accesi succedutesi nella nostra storia secolare: una storia che non si chiude alla nuova società, ma continua in essa per i “vecchi” e i “nuovi” svizzeri. Grande è la responsabilità della nostra generazione per la consegna alle generazioni future di una società pacificata e civile. Occorre avviare un percorso di riconoscimento di una comunità di grande rilevanza numerica sociale, come quella musulmana, alleata necessaria di ogni strategia di contrasto a qualsiasi fondamentalismo e al radicalismo islamico. Per questo è quanto mai urgente che le istituzioni, i media e i cittadini tutti, ci avviamo verso una controtendenza, rispetto alle paure e ai pregiudizi islamofobici che si stanno diffondendo in Europa.

L’importanza della storia delle religioni per l’educazione e la vita civile

Loïc Indro D’Orlando

Attualmente, di religione nonché di scuola si scrive e si parla molto, sicuramente a ragione, per l’importanza che esse rivestono nella vita e nella costruzione di una società civile. Ora, che il concetto occidentale di civiltà torni ad essere altrettanto dibattuto, non è forse inopportuno mettere a fuoco alcune riflessioni che lo colleghino non solo all’educazione del cittadino, ma anche al tema della religiosità, intesa come fatto antropologico irriducibile.
Oggi, il cittadino, non può più essere, soltanto, di una città, di un popolo, di una nazione. Tale nuova situazione esistenziale implica una conoscenza culturale molto più ampia che in passato, che non può essere acquisita senza relazionarsi con la cultura umana universale e senza tematizzare - con competenza - la questione delle “religioni”, che rappresentano un immenso patrimonio, in tutte le culture di questo mondo.

L’antropologia culturale del Novecento ha dimostrato che l’Uomo non può essere compreso senza studiarne la dimensione religiosa. Studiosi autorevoli come C.G. Jung, M. Eliade, E. Zolla, K. Kerényi, P. Ricoeur, J. Ries – pochi nomi tra i più famosi - hanno condiviso, ciascuno partendo dal proprio ambito di ricerca, l’universalità antropologica della religiosità, ma non solo: hanno anche riconosciuto e dimostrato il valore conoscitivo ed esistenziale del mito, del simbolo, del rito, insomma, il valore irriducibile della religione nelle sue varie manifestazioni, come fenomeno universale e squisitamente umano di cui non possiamo fare a meno, se vogliamo conoscere e comprendere l’Uomo.
Che il tema sia parte integrante di tutte le culture umane, d’ieri e di oggi, significa, che le “religioni” non rappresentano riduttivamente un “momento” della storia umana oppure una semplice “caratteristica” culturale del passato, bensì un dato antropologico oggettivo che non conviene occultare, soprattutto laddove dell’uomo si cercano di conoscere e capire tutte le manifestazioni: la scuola. Pertanto, non sarebbe di certo un male integrare nei programmi scolastici un insegnamento che tratti dei risultati dell’antropologia culturale, i quali dimostrano ampiamente e rigorosamente che l’homo sapiens sapiens non è comprensibile senza studiare la sua dimensione religiosa.
Lo studio dei fenomeni religiosi nonché la loro storia non è un lavoro di mera erudizione o di puro e semplicistico nozionismo scolastico. Come afferma Mircea Eliade (uno dei più autorevoli storici delle religioni del Novecento) lo studio delle religioni, dei loro simbolismi, dei loro contenuti sapienziali amplia il proprio orizzonte di senso, amplia la conoscenza dell’uomo stesso; significa uno sviluppo significativo della cultura in senso lato, a favore di un umanesimo universale.
Purtroppo, sul fenomeno religioso sono stati mossi argomenti pretestuosi e tendenziosi che sembrano misconoscere ciò che la scienza ha da dirci in merito. Uno di questi riguarda il tema “violenza-religioni”. Che motivi religiosi siano stati - e siano ancora – all’origine di atti inaccettabili è un fatto reale, ma, con questo, motivare l’eliminazione dell’insegnamento religioso oppure la non integrazione della storia delle religioni nei programmi scolastici, è un giudizio di notevole parzialità intellettuale. Non va dimenticato che le guerre e le azioni ignominiose non sono sempre di origine religiosa: l’economia oppure la biologia non sono assenti dalle aule scolastiche – anche se non molto tempo addietro, in Europa, furono argomenti ritenuti validi per muovere eserciti.
Vi è poi il falso problema dell’impossibile rapporto “scienza-religione”. Sostenere che la “religione” non sia compatibile con la “scienza” è un’opinione assai comune, di chi ignora la propria storia, nonché i risultati ottenuti da studiosi autorevoli come, per citarne due di alta levatura intellettuale, Joseph Needham (biochimico e storico della scienza del secolo scorso – Università di Cambridge) o Fritjof Capra (fisico americano di fama internazionale). Needham afferma che si può dunque dire che nelle fasi iniziali della moderna scienza europea la metodologia mistica si dimostrò spesso molto più proficua che non quella razionalista.
Naturalmente, c’è chi potrebbe contro argomentare che tale fase è decisamente superata dai risultati dell’attuale scienza; ma, a parere di Capra, non sarebbe proprio cosi, anzi:
la fisica moderna ci porta a una concezione del mondo che è molto simile a quella dei mistici di tutti i tempi e di tutte le tradizioni.
Insomma, i risultati delle ricerche di numerosi storici sono tali da poter affermare che ritenere il “destino” della scienza privo di motivi ed impulsi “religiosi” rasenta il revisionismo storico.
Ritornando al tema del cittadino: la comprensione delle culture “altre” – incomprensibili senza conoscere il loro patrimonio “filosofico-religioso” - dovrebbe essere, oggi più che mai, una competenza civile per attuare il dialogo interculturale – un dialogo di cui non possiamo fare a meno se non vogliamo generare conflitti civili. Infatti, è forse opportuno ricordare che la città non è fatta di pietre ma di uomini: pertanto, se le società europee (in questa fase di notevoli mutamenti, nonché la cultura occidentale) giunta ad una crisi identitaria, non operano civilmente a favore di questo dialogo, esse rischiano un provincialismo potenzialmente pericoloso.
Affinché il dialogo interculturale possa attuarsi realmente e praticarsi sensatamente, è necessario che i cittadini siano preparati e sviluppino certe competenze in vari ambiti delle scienze umane: quindi, certo, la storia delle nazioni, delle culture, dei popoli, l’estetica, l’antropologia, la psicologia, la sociologia, ma non solo. Che gran parte dell’Umanità d’ieri e di oggi sia religiosa in senso lato va tenuto in alta considerazione; inoltre, tale fenomeno non è riducibile e frammentabile in vari fattori che si possono studiare singolarmente. In altre parole, come ha ripetutamente sottolineato M. Eliade, il fenomeno religioso non è certamente un fenomeno “puro”, ma, comunque, è, di fatto, un fenomeno indipendente che non può essere inteso come un semplice aggregato di fattori antropologici, psicologici, sociologici, storici ecc. In conclusione, non si può “avvicinare” il fenomeno religioso con uno o diversi di questi fattori: la comprensione del fenomeno religioso, in quanto tale, sfugge alle anguste categorie scientifiche; esso, non è, dunque, riducibile a qualcosa altro o ad una delle sue singole dimensioni antropologiche. Pertanto, in quanto fenomeno indipendente, esso richiede uno studio particolare, un metodo di lavoro specifico in grado di rendere comprensibile i contenuti, le morfologie, insomma, le modalità del sacro di una religione e dei credenti.
Per cui, comprendere l’esperienza religiosa, conoscere il fenomeno religioso nelle sue varie sfaccettature, nelle sue diverse dimensioni significa soprattutto questo: sviluppare una competenza umana e, quindi, anche civile a favore di una pacifica e proficua vita sociale.
Una tale competenza, in virtù della sua importanza per la comunità civile, dove va acquisita se non a scuola?

Manifesto per l’accoglienza

Questa è una chiesa che accoglie

Approvato l’8 agosto 2018 dal Consiglio della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia (FCEI)

«In quanto lo avete fatto a uno di questi miei minimi fratelli, l’avete fatto a me» (Matteo 25,40)
Dio si avvicina a noi come straniero: respingendo chi chiede il nostro aiuto chiudiamo la porta a Gesù che ci cerca e tende la sua mano. «Fui straniero e mi accoglieste» (Matteo 25,35)
Annunciamo che la fede in Cristo ci impegna all’accoglienza nei confronti del prossimo che bussa alla nostra porta in cerca di aiuto, protezione e cure. «Nel giorno che Dio creò l’uomo, lo fece a somiglianza di Dio» (Genesi 5,1) Affermiamo che ogni uomo, ogni donna, ogni bambino e ogni bambina sono creature di Dio, a sua immagine e somiglianza, e che pertanto non si possa discriminare nessuno a causa della sua pelle, della sua religione, della sua identità di genere. Ogni forma di razzismo è per noi un’eresia teologica.
«Maledetto chi calpesta il diritto dello straniero» (Deuteronomio 27,19)
Siamo chiamati a difendere la vita, la dignità e i diritti di migranti, richiedenti asilo, rom, minoranze etniche e religiose e di quanti sono perseguitati ed emarginati. «Non c’è qui né Giudeo né Greco… perché voi tutti siete uno in Cristo Gesù» (Galati 3,28)
L’Evangelo di Cristo abbatte le differenze etniche e ci chiama a essere una Chiesa aperta all’incontro e allo scambio, in cui italiani e immigrati vivono insieme la fede cristiana. «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico, e s’imbatté nei briganti che lo spogliarono, lo ferirono e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto… un Samaritano… vedendolo, ne ebbe pietà; avvicinatosi, fasciò le sue piaghe versandovi sopra olio e vino, poi lo mise sulla propria cavalcatura, lo condusse a una locanda e si prese cura di lui» (Luca 10,30.33-34)
Apprezziamo e sosteniamo chi salva le vite dei migranti vittime dei traffici illegali e garantisce il soccorso umanitario nel Mediterraneo come sui passi alpini.

Respingiamo la falsa contrapposizione tra accoglienza degli immigrati e bisogni degli italiani, perché un paese tra i più ricchi al mondo ha le risorse per garantire l’una e gli altri e perché sappiamo che, col tempo, anche i nuovi immigrati costituiscono una risorsa per un paese come l’Italia ad alto declino demografico. Siamo impegnati a garantire corridoi umanitari a favore dei richiedenti asilo in modo che possano arrivare in Europa in sicurezza e legalmente. Lo facciamo ecumenicamente e nel rispetto delle normative europee.
Crediamo nella necessità dell’integrazione degli immigrati in una società accogliente, capace di promuovere l’incontro e lo scambio interculturale nel quadro dei principi della Costituzione.
Ci opponiamo alle politiche italiane ed europee di chiusura delle frontiere, di respingimento e di riduzione delle garanzie di protezione internazionale dei richiedenti asilo, tanto più quando fonti istituzionali delle Nazioni Unite attestano sistematiche violazioni dei diritti umani nei paesi di partenza e di transito. A tutti – ma ancor di più a chi ha responsabilità istituzionali – chiediamo di adottare un linguaggio rispettoso della dignità dei migranti e di contrastare con gesti e azioni concrete atteggiamenti xenofobi e razzisti.
Denunciamo e critichiamo la campagna politica contro gli immigrati e i richiedenti asilo che, a fronte di arrivi in diminuzione e perfettamente sostenibili in un quadro di solidarietà europea, esaspera e drammatizza il dibattito pubblico.
Ci appelliamo alle chiese sorelle dell’Europa perché accolgano quote di richiedenti asilo e spingano i loro governi a promuovere politiche di condivisione dei flussi migratori in un quadro di solidarietà e responsabilità condivise.
Ricordando la Parola dell’apostolo «Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi amore, sarei un rame risonante o uno squillante cembalo» (I Corinzi 13,1), affermiamo che l’amore di Dio per l’umanità è più forte dei nostri egoismi di individui e di nazioni e che noi siamo chiamati a testimoniarlo ogni giorno con gioia, speranza e fiducia.

Il principio disponibilità: la mia Verità religiosa e quella dell’Altro

Loïc Indro D’Orlando

Alcune considerazioni introduttive
Porsi la domanda della propria Verità religiosa in relazione a quella dell’Altro è una problematica di confine tra le religioni.
Per il credente, la propria religione è, prima di tutto, un’esperienza di fede e, quindi, un’esperienza esistenziale vissuta interiormente ed esteriormente. Se è effettivamente così, ovvero, se, dunque, è legittimo parlare della religiosità, anzitutto, come esperienza e, quindi, come pratica spirituale, è anche vero che, nonostante questa primaria e fondamentale dimensione esperienziale, i rapporti, il dialogo tra le religioni sono - molto spesso - di tipo “intellettuale”.
Quest’osservazione non dovrebbe stupire perché sono soprattutto i contenuti sapienziali ad essere esposti, quando il credente si trova a dire la propria fede, a spiegare la propria esperienza, a far comprendere i motivi che orientano la sua religiosità.

Questo dire è, infatti, possibile se il credente si riferisce all’insieme delle Verità che costituiscono il nucleo irriducibile della sua religione.
Tutte le religioni hanno un nucleo ovvero un contenuto di Verità che non può essere relativizzato, ridimensionato, ridotto: le religioni si caratterizzano per il fatto di avere una Tradizione cioè un sistema di Verità ritenuto sacro, intoccabile. Per cui, tutte le religioni possiedono un certo contenuto di Verità che sancisce ciò che è vero e ciò che non lo è.
Questi contenuti di Verità, anche se bellissimi nella loro originaria sacralità, furono spesso, purtroppo, i moventi di numerosi conflitti tra gli uomini. Infatti, la storia spirituale dell’Umanità è segnata dall’infelice conio dell’esclusivismo ideologico, ovvero dal dominio di una verità a scapito di un’altra.
Ovviamente queste considerazioni potrebbero risultare troppo semplici e molto generiche perché i contenuti sono complessi, molto articolati, a volte molto simili, a volte molto distanti, alcuni sono chiaramente fondanti, altri, invece, molto meno; inoltre, ogni conflitto dogmatico deve essere analizzato in dettaglio per essere pienamente capito. Ma ciò che è necessario cogliere qui è il seguente fatto: ogni conflitto è generato dall’incompatibilità apparente tra due verità, dalla loro umana interpretazione perché si parla, qui, di conflitti umani.
Quando, nel dialogo tra diversi credenti, si “tocca” il fondamento di Verità dei contenuti sapienziali di una religione, si alzano subito gli “scudi” protettivi della Tradizione, sguainando contemporaneamente le lame affilate della Dottrina. Questo perché il sacro fondamento è La Verità di ogni religione e, quindi, intoccabile; e poiché tutti i credenti vivono la loro religione come fonte di Verità, ogni religione è un fondamento di Verità. Qui sta, dunque, la difficoltà quando i credenti si confrontano in merito a tematiche fondamentali.
Il termine “fondamentalismo” è originariamente cristiano in quanto fu usato nella seconda metà del XIX sec per denominare il movimento di alcuni cristiani conservatori dedicatosi alla valutazione della moderna esegesi dei “loro” testi sacri: essi rifiutarono la scienza filologica contrapponendo ad essa il fondamento del loro credo. In seguito, il termine venne utilizzato per definire altre tendenze e altri movimenti contraddistinti da una spiccata volontà di autoaffermazione e di rifiuto della modernità, nonché del dialogo con l’alterità.
Il fondamentalismo non è, dunque, imputabile al contenuto di una religione, non è un aspetto peculiare della religiosità; si tratta di un certo tipo di atteggiamento: una radicale difesa della propria identità a scapito delle altre, motivata dalla propria interpretazione della Verità di fede; è un modo di essere al mondo fondato su una logica esclusivista che genera il rifiuto di qualsiasi riflessione sul proprio sistema di Verità e che non esita ad aggredire ed eliminare tutto ciò che non rientra nel proprio orizzonte di senso. In un certo senso, il fondamentalismo opera una riduzione dell’universale al particolare: perché è sempre l’individuo ad interpretare la Verità della propria fede e mai il contrario. Infatti: non basta dirsi cristiano e vivere a modo proprio i contenuti della fede cristiana, per essere l’autentica incarnazione del cristiano; di fatto, da secoli, i cristiani non sono tutti uguali anche se tutti quanti seguaci del Cristianesimo. In altre parole, una religione è sempre incarnata da uomini, esseri particolari cioè finiti, situati storicamente, socialmente, culturalmente in senso lato. Ma tale fatto oggettivo non nega assolutamente un altro fatto oggettivo: i contenuti di Verità esistono e non appartengono a nessuno. Il fondamentalista ignora questi fatti.
In un’ottica ermeneutica, una religione non è contenibile da un singolo individuo e nemmeno da un vasto gruppo di uomini. I contenuti di una religione, il sistema di Verità, è sempre interpretato e messo in pratica, cioè è sempre inevitabilmente umanizzato e, pertanto, necessariamente ridotto alle condizioni di possibilità dei credenti. Ciò significa che la Verità religiosa intesa come manifestazione sacra e rivelazione divina è sempre da situare oltre il singolo, il particolare, oltre l’umana finitezza. Per cui nessun credente possiede realmente la propria Verità di fede; perciò non ne dispone e non può farne ciò che vuole.
Non vi sono motivi scientifici o filosofici per relativizzare o ridurre il valore delle Verità di fede anche se esse sono sempre portate nel mondo attraverso la mediazione umana. Sono Verità meta-umane, meta-razionali che non possono essere ricondotte a logiche profane; in altri termini, le Verità di fede, pur essendo espresse in un linguaggio umano e, quindi, con un mezzo simbolico finito, ci parlano del “totalmente altro” ovvero del Sacro: ciò che la sola ragione non può afferrare nella sua totalità, ma comunque è stato sperimentato in tutte le culture del mondo umano; il Sacro è una dimensione spirituale (in senso lato) che nessun essere umano può legittimamente possedere esclusivamente e comprendere totalmente e, quindi, confutare, negare o eliminare.
Non si vuole qui negare la possibilità che l’essere umano abbia di poter accedere al divino. Le religioni ci dicono che l’Uomo è destinato a relazionarsi con il divino; anzi, tale relazione è l’essenza stessa della religiosità. Tuttavia, non tutti sono capaci di raggiungere il divino fino al punto di ri-congiungersi con esso. Alcune correnti religiose lo ritengono, addirittura, impossibile.
I mistici di tutte le culture rappresentano un fenomeno di straordinaria relazione con il divino e ci parlano di questa possibilità che l’Uomo ha di vivere la dimensione universale della religiosità: quella sacra dimensione dove scompaiono le limitazioni della persona, quei limiti umani che generano tutti i problemi.
Al termine di queste prime considerazioni introduttive è necessario ritornare sul tema esplicitato nelle prime righe di questo scritto: quando i credenti devono o vogliono dialogare in merito alle loro Verità di fede, vi sono quasi sempre problemi, incomprensioni, rigidità, chiusure, oppure considerazioni elusive per evitare lo scontro dottrinale. Ma sappiamo che praticare una strategia eccessivamente diplomatica, evitando di confrontarsi con i problemi generati dall’esclusivismo dottrinale, è un atteggiamento, certo, pacifico che non ferisce e scomoda nessuno, ma i problemi non li cancella, anzi, essi continuano ad esistere comunque, potenziandosi, diventando vere e proprie “mine vaganti” di fondamentalismo.
Dunque, che fare? Si può lavorare in modo da sviluppare un atteggiamento costruttivo cioè dialogico? Le verità sono un ostacolo?
Nelle pagine che seguono, sviluppo un tema che definisco il principio disponibilità: un principio etico che potrebbe essere di riferimento per svolgere un certo tipo di lavoro riguardo alla spinosa questione qui trattata.
Il punto etico
La disponibilità
Ritengo che non sia tanto un sapere ad essere determinante per relazionarsi con l’Altro e la “sua” Verità, quanto, invece, un atteggiamento, un certo modo di essere con gli altri.
In queste pagine tratterò la disponibilità come atteggiamento ermeneutico cioè come un modo di essere al mondo in grado di creare uno spazio per l’Altro, non uno spazio vuoto, bensì uno spazio dove situarsi consapevolmente con un progetto specifico: incontrare l’Altro con la volontà di comprenderlo.
Uso l’aggettivo ermeneutico perché intendo tale atteggiamento nel seguente modo: un rapporto circolare dove la comprensione dell’Altro, passa, consapevolmente, attraverso la comprensione che ho di me stesso e vice versa.
Senza quello sforzo ermeneutico non vi può essere relazione perché senza la volontà di sapere chi incontra chi, non c’è veramente un incontro.
Inoltre, ermeneutico perché ogni conoscere è sempre e comunque un interpretare. A maggior ragione per quanto riguarda l’esperienza di fede e della Verità religiosa: non è possibile conoscerla a fondo se non faccio, se non vivo tale esperienza. E spesso non è possibile. L’unica possibilità è, dunque, l’interpretazione, ma essa è sempre limitata dai presupposti e dalle condizioni di possibilità dell’individuo che interpreta. Pertanto, l’unica via per la relazione è lo sforzo di comprensione, che dipenderà dalla conquista di un punto etico situato al centro del cerchio ermeneutico della relazione di cui ho parlato sopra.
Questo punto etico è presente in tutte le grandi religioni: è un punto di convergenza importantissimo che conviene ricordare:
non fare al prossimo ciò che non è giusto né per lui né per te.
Tale “principio”, se rispettato, non implica soltanto una pacifica tolleranza, ma conduce a considerare l’Altro alla pari: vi è in esso una vera e propria logica della reciprocità. Per cui, applicando questo “principio” nella relazione con l’Altro, nessun credente dovrebbe, per esempio, sminuire la Verità di fede di un altro perché nessun credente accetterebbe che la propria Verità di fede venga sminuita.
Raggiungere questo punto etico è decisivo per attuare un atteggiamento ermeneutico e, quindi, del tutto fondamentale per generare attorno a sé il cerchio virtuoso che crea lo spazio necessario per accogliere e comprendere l’Altro.
In poche parole è il punto irriducibile dal quale possono partire tutte le dinamiche che mirano ad incontrare e comprendere l’Altro.
Cosa significa incontrare e comprendere l’Altro? A mio parere, non è possibile dare una risposta univoca, perché si tratta in realtà di un’esperienza che tutt’al più può essere descritta e spiegata oggettivando attitudini, sentimenti e pensieri personali. Ma alcune considerazioni fenomenologiche dovrebbero condurci al principio decisivo della disponibilità poiché senza di essa, alla luce della mia esperienza e delle mie riflessioni, non è possibile l’incontro e ancor meno la comprensione dell’Altro.
L’incontro è l’opposto dello scontro. Ciò significa che quando non mi oppongo all’Altro comincio a creare le condizioni dell’incontro. Ovviamente un incontro può degenerare e diventare uno scontro. Ma questo avviene quando una delle parti o entrambe le parti riducono lo spazio ermeneutico fino al punto minimo che, inevitabilmente, non basta più per evitare che gli spazi individuali cozzino tra di loro. Senza sviluppare oltre, possiamo già intuire che l’incontro presuppone un minimo di spazio interpersonale per farsi e, quindi, visto che l’incontro non si fa senza l’Altro, l’incontro può attuarsi se c’è anche spazio per l’Altro. Il per è importante: significa che si lascia all’Altro uno spazio suo dove egli può manifestarsi. Come definire una tale rappresentazione se non con la parola disponibilità? Ovviamente l’incontro non è solo questo.
Affinché l’incontro abbia un senso è necessario riconoscere che se si crea uno spazio dove trovare l’Altro è perché c’è l’intenzione di mettersi in relazione con lui. Pertanto, è importante capire che cosa rende effettiva la relazione.
La relazione si fa e per farsi, come minimo, è necessario essere in due e volerlo: è un movimento verso l’Altro che viene corrisposto, ma non necessariamente nello stesso modo. Senza volerla veramente, la relazione non esiste perché la relazione coatta non è una relazione. Si presuppone qui che ogni relazione sia il risultato di una volontà libera anche se resa necessaria da fattori esterni. Perché qui sta il punto: l’interesse per l’Altro è una condizione fondamentale. Senza di esso, la relazione non assume un senso positivo, in quanto usare l’Altro non è, di certo, trattarlo applicando il sacro principio della reciprocità: ciò significherebbe perdere di vista il punto etico e rompereil virtuoso circolo ermeneutico di cui ho parlato sopra.
Quel movimento verso l’Altro è inteso qui come dis-posizione ovvero come decentramento dell’interesse per sé, come “toglimento” di ogni rigida posizione affinché l’Altro possa essere e manifestarsi. Il filosofo F. Jullien parla molto bene di questo sottile processo interiore.
Per cui, la disponibilità, come la intendo in queste pagine, è una relazione voluta e ricercata, una tensione positiva verso l’Alterità che implica uno “spostamento” rispetto alla propria posizione di partenza, proprio perché l’Altro esiste e la sua esistenza non può non interpellarmi come se fosse un “nulla”. Altrimenti, di nuovo, il punto etico – irriducibile - non sarebbe più rispettato. Questo atteggiamento deleterio ha un nome: indifferenza.
In un’ottica cristiana, tale disponibilità può essere compresa partendo dal “movimento” di Dio stesso verso la sua creatura: un movimento gratuito. Dio si è poi fatto disponibile nel Cristo accogliendo in sé l’Umanità sofferente, perdonando gli errori ed i peccati, lasciandola libera di essere e manifestarsi, comunque.
Concretamente e riguardo al problema della Verità qui trattato, che cosa tutto ciò può significare?
La disponibilità come principio etico-ermeneutico implica, dunque, che l’Altro possa essere un Altro ovvero un essere umano “diverso da me”, senza per questo essere considerato inferiore o insignificante. Questo è il punto di partenza.
La riconoscenza dell’Alterità, resa possibile dalla disponibilità, deve condurre ad un fatto ermeneutico fondamentale della relazione: se comprendo l’Altro attraverso ciò che sono e se ciò che comprendo di me stesso dipende anche da ciò che comprendo dell’Altro, capito questo, è chiara la presa di coscienza che ne consegue: se la “mia” Verità ha un senso positivo per me, anche la Verità dell’Altro assume un senso per me, un senso che non dipende soltanto dall’Altro e dalla veracità della “sua” Verità, ma, in realtà, dipende anche da me e dalle mie capacità (in senso lato) di comprenderla, di viverla e di accettarla. In altri termini: essere disponibile significa accettare la nostra finitezza e non pretendere di possedere la Verità Ultima. Un cristiano potrebbe con certezza affermare di essere l’incarnazione del “vero cristiano”? Chi può affermare di essere libero dall’errore e dal peccato? Chi può porsi a giudizio di una sacra Verità che gli sfugge e che non potrà mai pretendere di possedere a meno di non considerarsi un dio? Sono domande che riguardano tutti i credenti e non solo.

Considerazioni conclusive
Il principio disponibilità qui tematizzato è, a mio parere, un principio che può valere nel dialogo tra le religioni, a patto che chi vi partecipa intenda il dialogo come un incontro, una relazione voluta e positiva, un movimento verso l’Altro che viene positivamente corrisposto rispettando il famoso punto etico che implica la logica della reciprocità. Una logica irriducibile per qualsiasi rapporto paritetico che ogni dialogo dovrebbe presupporre.
Non credo che praticando la disponibilità come principio etico-ermeneutico si possa cadere nel mero relativismo o nel nebuloso sincretismo perché qui si è parlato d’incontro e non di con-fusione. L’identità religiosa dei credenti è implicita, è sottesa perché essa è una parte fondamentale della questione poiché senza identità non vi sono problemi di verità. I problemi in questo caso sono altri.
La sfida è proprio questa: creare un’attitudine al dialogo, cioè una pacifica convivenza dell’identità e della disponibilità per l’Altro in una persona che vive una Verità di fede.
Esiste un termine per chiamare quest’attitudine? Penso di si: la saggezza.

Forum svizzero per il dialogo interreligioso e interculturale
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